Ho scelto di mettere nero su bianco la mia esperienza ad Auschwitz-Birkenau innanzitutto come memoria per me stessa. Questa esperienza mi è rimasta cucita addosso perché i campi di concentramento sono stati molto più brutti di come li ho immaginati studiandoli sui libri di storia.
La prima cosa che voglio ricordare è quello che ci ha detto la nostra guida, Michele: Cos’è Auschwitz? Un luogo della storia? Certo. Un sito archeologico? Per alcuni versi sì. Una meta turistica? Indubbiamente sì, anche quello. Ma spesso dimentichiamo la cosa più importante: Auschwitz è un cimitero. Un cimitero senza corpi, senza lapidi, dove le fotografie sono reperti storici ma la presenza delle persone, oltre un milione, sembra urlare.
Tutti sappiamo la fine di Auschwitz ma a volte dimentichiamo il suo inizio. I nazisti scelsero di stabilire i campi di concentramento in questa zona della Polonia, vicino la cittadina di Oświęcim, che fu “tedeschizzata” subito con il nome di Auschwitz. Il luogo fu scelto perché vi era già una grande caserma militare sviluppata in blocchi che si prestava benissimo per farne un campo di concentramento e sterminio per far lavorare i deportati in condizioni di schiavitù e poi ucciderli.
La visita inizia così: una enorme porta scorrevole di ferro apre l’accesso al campo e si percorre un lungo corridoio murato che sembra proprio spingerti dentro una nuova dimensione. Sul cancello dell’ingresso principale era stata posta un’incisione, tutt’ora presente: Arbeit macht frei, in tedesco “Il lavoro rende liberi”. Si trattava di una delle tante ambiguità del “sistema Auschwitz” perché in realtà nessuno, nei campi di concentramento, si sarebbe riscattato con il lavoro ma lo slogan, diffuso anche negli altri campi, era uno strumento utile per illudere i prigionieri e tenerli buoni. C’ è però un dettaglio da non trascurare: la “b” di Arbait era stata incisa al contrario come forma di resistenza silenziosa. Furono vari i gesti di protesta e resistenza silenziosa che provarono a lasciare un segno in questa pagina tragica della storia. Io ho avuto la sensazione di entrare in una foto d’epoca in bianco e nero: l’ambiente è scarno, i viali sono in terra battuta, alberi sottili e spogli delle foglie sembrano braccia esili che si protendono verso un cielo bianco che sembra così indifferente e inclemente. Tutta l’atmosfera era permeata da un sentimento misto di rispetto e incredulità.
Il campo di Auschwitz è rimasto così com’era, diviso in blocchi: vengono effettuate delle manutenzioni ma nulla è stato sostituito. Le scale dei vari edifici sono lisce e usurate anche per via dei milioni di visitatori che sono passati negli anni. Tutto il perimetro del campo era delimitato da un doppio cordone di filo spinato elettrificato: bastava toccarlo per morire fulminati eppure in molti ci si lanciarono in cerca della morte dopo mesi o anni di logorante prigionia. La visita si svolge visitando ciascun blocco e Auschwitz appare così come una matrioska della cattiveria dove ogni edificio, ogni dettaglio, fa parte dell’ ingranaggio di una macchina della sofferenza e della morte.
Senza via di scampo
La morte dei deportati iniziava nel momento in cui venivano scippati alle loro case e alle loro vite da ogni parte d’ Europa, caricati su una locomotiva senza finestre e portati fin dentro il campo di concentramento, come nel caso di Birkenau. Appena arrivati, i deportati venivano subito selezionati, divisi dalle loro famiglie e destinati a due epiloghi: o nei campi di concentramento a lavorare in condizioni a dir poco estreme oppure direttamente nelle camere a gas, con la scusa di dover fare una doccia. Tantissimi di loro, dunque, non si sono neanche resi conto di dove fossero finiti e di cosa li aspettasse. I nazisti inscenavano un teatrino dell’orrore con lo scopo di non diffondere panico e ottenere la collaborazione dei prigionieri: li conducevano presso le camere a gas invitandoli a fare una doccia preventiva ma poi, una volta rinchiusi in queste enormi camere sotterranee, nell’aria veniva diffuso il potente veleno Zyklon B, di cui sono stati ritrovati migliaia di barattoli, poi utilizzati come prove del crimine. Coloro che erano più vicini all’aria di diffusione avevano la “fortuna” di morire quasi subito; gli altri, invece, erano costretti a un’agonia da soffocamento che durava anche 10 interminabili minuti in cui il veleno causava un infarto dopo l’altro. Mentre i poverini morivano, nello spogliatoio i loro effetti personali venivano raccolti e mandati in Germania, paradossalmente destinati alle “opere di bene” o venduti. Dopo circa 15 minuti i corpi dei deportati venivano messi nei forni crematori e ridotti in polvere, cancellando per sempre la loro esistenza.
Interno di una camera a gas di Auschwitz
L’orrore potrebbe finire qui ma in realtà questa era solo la via più breve. Per tanti altri Auschwitz ha significato anni di lento logorìo di sofferenze indescrivibili fra digiuni, deperimento, lavori forzati, malattie non curate, agonie interminabili fin quando il corpo non si usurava, una goccia alla volta. C’era anche una prigione nella prigione ed era nel Blocco 11: le celle erano minuscole e sotterranee con solo con una piccola grata; in alcune c’era spazio solo per una persona, in piedi, che a volte vi trascorreva interi giorni e notti. Fuori c’ è il muro delle esecuzioni, perché molto spesso il più piccolo passo falso che poteva urtare l’umore di una SS voleva dire una condanna a morte. Nel blocco 11 i prigionieri venivano interrogati strenuamente, torturati e infine fucilati. Poi c’erano le esecuzioni pubbliche, tramite impiccagione, che servivano soprattutto come deterrente contro i tentativi di fuga e sabotaggio. Le camere a gas, passate alla storia come lo strumento di morte dell’Olocausto, in realtà erano solo la fine di un lungo e sadico gioco di tortura.
Il metodo Auschwitz
I primi ad essere presi, deportati e uccisi furono coloro che facevano parte dell’intellighenzia di ciascun paese, che era vista come un pericolo dai nazisti perché poteva agire sulla coscienza di ciascun popolo e incitare alla reazione al nazismo. L’èlite intellettuale era un gruppo vasto e tutti furono presi di mira: politici, filosofi, insegnanti, esponenti di ogni ordine monastico, medici, avvocati e studenti. A coloro che erano destinati al campo di concentramento venivano rasati i capelli che poi venivano utilizzati come filati per realizzare i calzini per gli ufficiali del Terzo Reich impegnati nella marina militare. E’ assurdo: capelli umani usati come filati per realizzare calzini. C’ è una stanza con una teca enorme che occupa una intera parete e lì sono esposti, arruffati e mischiati fra loro, 7 tonnellate di capelli rasati che erano già imballati e pronti per essere spediti. Li trovarono i soldati sovietici quando giunsero a liberare il campo e da allora sono stati conservati e esposti come prova del crimine. In questo luogo non è possibile fare foto perché, se ci pensiamo bene, quei capelli sono gli unici corpi visibili del cimitero di Auschwitz. Passare davanti quella lunga teca, in silenzio, pensando di stare guardando corpi che si mescolano fra loro è un momento che credo sarà indimenticabile. Nel campo, nel settore intitolato “Prove del crimine”, sono conservati centinaia di migliaia di effetti personali che testimoniano le violenze e le privazioni. Sotto enormi teche di vetro sono esposti occhiali, le centinaia di valigie che i deportati avevano anche contraddistinto con dei segni di riconoscimento, convinti di ritrovarle; e poi centinaia di protesi come busti per chi aveva avuto la poliomielite, gambe di legno e collari. Questi supporti sono presenti perché anche i malati erano presi di mira e trasferiti con la forza nei campi di concentramento: erano considerati un male vivente da estirpare.
La vita nel campo
Tutto, ad Auschwitz, era pensato per condurre alla morte attraverso lunghe sofferenze. Si dice che ad Auschwitz la morte iniziava dai piedi. Le scarpe erano degli zoccoli di legno in stile olandese che venivano utilizzati in estate e in inverno e che provocavano vesciche che poi diventavano ulcere doloranti, sanguinanti e non curate che provocavano dolori atroci. La vita quotidiana nel campo aveva un ritmo ben scandito in poche fasi. Era concesso usare il bagno solo la mattina presto, all’alba: i deportati erano messi in fila e portati nelle latrine che erano una fila di buchi, uno accanto all’altro, dove i prigionieri potevano defecare sotto lo sguardo dei kapò che li accompagnavano e che concedevano loro pochissimi minuti per espletare i loro bisogni. A volte contavano solo fino a 5…e poi ordinavano di lasciare il cacatoio a un altro prigioniero. I loro escrementi erano utilizzati come fertilizzante ed erano gli stessi ebrei a trasportarli nei terreni. La colazione era un pezzo di margarina con del pane nero. Di sera bevevano una tazza di brodaglia. La dissenteria era diffusa e accadeva che molti di loro avessero attacchi di diarrea durante la notte ma, non potendo raggiungere i bagni, erano costretti a defecare lì dove dormivano insieme agli altri e visto che i letti erano a castello, sovente chi era in alto cagava letteralmente addosso agli altri. Uno dei momenti più angoscianti è stata la visita delle latrine di Birkenau e delle stalle utilizzate come dormitori dove trascorrevano la notte ammassati sulle reti di legno senza materasso.
le latrine di Auschwitz
I bambini di Auschwitz
Non so dire se esiste un capitolo più duro degli altri ma quello che accadeva ai bambini nei campi di concentramento è stato difficile da ascoltare e ancor di più da ripetere. Alcuni bambini venivano uccisi subito, come gli adulti, nelle camere a gas. Altri bambini furono tenuti in vita ma la loro era una sorte anche peggiore. Alberto Sed, sopravvissuto di Auschwitz, raccontò di aver visto un bambino utilizzato come tiro al bersaglio dalle SS; poi vide una bambina fatta sbranare da un cane e altri gesti feroci su bambini e neonati e da allora non riuscì mai più a prendere un altro bambino in braccio. Il segno del passaggio dei bambini ad Auschwitz è impresso sui muri, dove disegnavano ciò a cui assistevano tutti i giorni.
i disegni sui muri dei bambini di Auschwitz
Il Dottor Mengele
Altri bambini venivano tenuti in vita in quanto oggetti di studio e di esperimenti del Dott. Josef Mengele, a cui bisogna dedicare uno dei capitoli più duri della storia di Auschwitz. Mengele era un medico che si dedicava soprattutto agli esperimenti sugli esseri umani per cercare conferme alle proprie deliranti teorie sulla razza. Ad Auschwitz iniziò come selezionatore, ovvero decideva chi doveva morire subito e chi era adatto al lavoro, rinviando solo di qualche tempo l’appuntamento con le camere a gas. Gli esperimenti più frequenti riguardavano la sterilizzazione, inoculava nei prigionieri dei batteri per osservare e curare le malattie, praticava operazioni di cui non c’era bisogno solo per fare pratica e anche quando riusciva a guarire le malattie che lui stesso aveva causato poi finiva con l’uccidere le sue cavie umane. Anche l’atto di uccisione, già di per sé terribile, era reso ancor più atroce perché Mengele era solito praticare un’iniezione di fenolo direttamente nel cuore. E, come se non bastasse, spesso sezionava i cadaveri: molti organi, scheletri, feti e parti anatomiche dei morti di Auschwitz furono spediti anche alle università tedesche per fare ricerche. Ma la vera ossessione di Mengele erano i gemelli. Ne esaminò centinaia di coppie, facendo su di loro centinaia di esperimenti: li analizzava con ossessione, li fotografava nudi, arrivò addirittura a cucire due gemelli da un braccio per creare dei gemelli siamesi artificiali. La bestia di Josef Mengele riuscì a farla franca. Trovò rifugio in Sud America sotto falso nome, come fecero tante altre SS, e trovò la morte solo nel 1979 mentre stava nuotando nelle acque del Paraguay. La sua salma fu sepolta sotto falso nome ma fu trovata nel 1985 e identificata con certezza attraverso l’esame del DNA.
Nel campo di Auschwitz regna il silenzio, pur essendo ogni giorno molto affollato. I gruppi si incrociano ma si sentono parlare solo le guide. Questi fatti li conosciamo, li abbiamo studiati e li abbiamo sentiti raccontare attraverso le testimonianze viventi dei superstiti ma ci sembrano inconcepibili. Con i miei compagni di viaggio siamo riusciti a scambiare pochi commenti; solo i nostri sguardi increduli si incrociavano di tanto in tanto per cercare conforto o condividere con rassegnazione che tutto quello che stavamo vedendo e ascoltando era stato compiuto davvero da altri uomini neanche tanto tempo fa. Auschwitz appartiene a un passato prossimo che fa ancora ombra sul nostro presente.
Potrei continuare a riportare decine di dettagli su fatti ascoltati durante la mia visita ma non riuscirei comunque a riportare tutto perchè è impossibile sapere tutto su questo maledetto capitolo della storia dell’uomo. Non so se vorrò/potrò mai tornarvi ma so che questa esperienza mi rimarrà dentro.
Auschwitz-Birkenau è un contenitore di di violenza, dolore e malvagità; il luogo dove la speranza perde ogni speranza. Il campo fu liberato il 27 gennaio 1945 e da allora questa data è diventata un simbolo e quest’anno si sono celebrati gli 80 anni dalla liberazione del campo.
Purtroppo stiamo perdendo anche gli ultimi testimoni viventi dell’Olocausto e noi che li abbiamo ascoltati dobbiamo anche far sì che la memoria non si cancelli.
Suggerimenti per visitare Auschwitz Birkenau
Auschwitz e Birkenau sono due campi distinti che si trovano a pochi km di distanza e il biglietto di ingresso è unico. I due campi di visitano in un percorso di 6 o 8 ore. Il modo migliore per visitare Auschwitz Birkenau è senza dubbio quello di affidarsi a una guida preparata, empatica: la professionalità di Michele Andreola ha reso la mia esperienza molto fluida e qui trovate il suo blog dedicato ad Auschwitz e i suoi contatti.
Ho girato un breve reel della mia esperienza ad Aushwitz, potete trovarlo qui.
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario“ Primo Levi
…”Il mio racconto vuole essere sempre un monito per i ragazzi, perché diventino forti e sappiano fare le scelte giuste. Imparino a non ascoltare quello che grida più forte, anche se spesso è più facile, ma abbiano, invece, molta fiducia in sé stessi. Perché io ho sperimentato la forza che si può avere, anche nei momenti più duri, per andare avanti – ‘una gamba davanti all’altra’ – senza lasciarsi andare”. Liliana Segre
Questo sito Web utilizza i cookie per consentirci di offrire la migliore esperienza utente possibile.Le informazioni sui cookie sono memorizzate nel tuo browser ed eseguono funzioni come riconoscerti quando ritorni sul nostro sito web e aiutando il nostro team a capire quali sezioni del sito web trovi più interessanti e utili.
È possibile regolare tutte le impostazioni dei cookie navigando le schede sul lato sinistro.
Inoltre, nell’informativa della cookie policy del nostro sito, trovi tutte le informazioni per disattivare i cookie in modo autonomo su qualsiasi tipologia di browser.
Cookie necessari
I cookie strettamente necessari devono essere abilitati in modo che possiamo salvare le tue preferenze.
Se disabiliti questo cookie, non saremo in grado di salvare le tue preferenze.Ciò significa che ogni volta che visiti questo sito web dovrai abilitare o disabilitare nuovamente i cookie.
Questi cookie sono necessari per permettere al tuo account social di interagire con il nostro sito. Servono ad esempio per farti esprimere il tuo apprezzamento e per condividerlo con i tuoi amici social. I cookie di social network non sono necessari alla navigazione.
Per conoscere e disabilitare i cookie di questi social ecco i rimandi alle singole policy: